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Modelli di inserimento dei luoghi nel flusso globale del capitalismo, tra continuità, crisi e cambiamento.

Indice di questo articolo

Un luogo, Prato: tra immaginazione e globalizzazione

Alla fine degli anni ’70 l’opinione pubblica europea si occupò del caso Prato a proposito del rapido successo delle sue industrie tessili che, ben presto, misero in ginocchio la gran parte dei loro concorrenti. Nel 1978 la rivista francese di moda Elle pubblicava un articolo che accostava Prato all’India, per le condizioni e lo sfruttamento del lavoro; la città veniva definita l’inferno del tessile: “La città andò in subbuglio, vennero coinvolti il mondo politico ed economico, ma reagì pressoché compatta, e dimenticò i contrasti interni”. Sulla stampa locale persino il sindacato unitario dei lavoratori tessili intervenne accusando il giornalista di essere stato in città solo un paio d’ore, e che la situazione del lavoro a Prato era di sostanziale correttezza (cfr. Cammelli, 2014: 28). Intorno alle minacce alla competitività dell’industria locale si ricompone un fronte omogeneo che rimuove il dibattito locale sulle condizioni contrattuali e della salute sul lavoro per difendere l’immagine della Città che allora era evidentemente considerato un fattore di competitività sui mercati europei e mondiali.
Ancora dalla Francia, ma questa volta dal prestigioso quotidiano Le Monde, arriva nel 1980 un articolo che parla di Prato con un titolo che, a posteriori, sembra quasi una provocazione: Hong Kong all’italiana (Maurus, 1980). La giornalista evidenzia la capacità dei pratesi di rispondere ad ogni tipo di problema che venga posto dalle esigenze produttive, sul piano degli investimenti per il rinnovo dei macchinari o per provvedere alla dotazione di sistemi di depurazione delle acque industriali, ma con una certa ironia evidenzia anche i pesanti effetti che lo sviluppo ha determinato sulla forma e funzionamento della città, sulla salute dei cittadini e lavoratori. Nell’articolo si usa il termine “Auto-exploitation”, un termine che, afferma la giornalista, ha un’origine pratese. Autosfruttamento, più di recente utilizzato per descrivere l’atteggiamento dei migranti di origine cinese che vivono e lavorano a Prato3.

“On croirait rêver, n'était la ville. Sale, grise, défigurée par les ateliers sauvages, défoncée par les camions. Et puis une paille: 10.000 accidents du travail en 1978, dont 500 ont eu des conséquences définitives. Certains ouvriers gagnent ici 1 million de lires par mois, mais ils y laissent trop souvent, qui un poumon, brûlé par les vapeurs d'acide, qui un doigt, pris dans les cardes, qui l'ouïe - 80 % des salariés du tissage parvenant à la retraite sont sourds... "Auto-exploitation", le mot est, paraît-il, pratésien. Il explique peut-être que, curieusement un nombre croissant de jeunes refusent d'entrer dans ce paradis.” (Maurus, 1980) 4.

Questo interessante passaggio del dibattito pubblico sulle condizioni di lavoro e l’auto-sfruttamento dei lavoratori pratesi (inclusi i toscani immigrati dalla campagna mezzadrile e i meridionali immigrati nel distretto tessile, ma, evidentemente, non ancora le famiglie di migranti lavoratori provenienti dallo Zhejiang e dalle altre regioni del Sud Est della Cina) pone allarmanti interrogativi sulla costruzione sociale della figura del migrante5: che si diventi cinesi lavorando a Prato ? Oppure: che le condizioni di lavoro nelle fasi di avvio dello sviluppo di una regione industriale siano simili ovunque - ancor più se accadono nello stesso luogo ? O, semplicemente: che il repertorio dei ruoli che utilizza l’autrice del brillante articolo trovi una forma di adattamento semantico attraverso lo spazio e il tempo?

Il più recente flusso di immigrati, quello che ha condotto a Prato migliaia di cinesi provenienti prevalentemente dallo Zhejiang, ha riproposto una dinamica produttiva, con la connessa grande mobilità di merci e persone, che si esprime attraverso una fitta rete di relazioni produttive, un ritmo di crescita che ricorda i tempi del decollo del distretto industriale tessile. Ma le storie delle persone che passano nelle strade, le lingue parlate, le merci che sono vendute nei negozi dei quartieri e quelle che circolano nei furgoni che attraversano la città sono diverse da quelle di cinquant’ anni fa. La concentrazione di famiglie e gruppi di lavoratori cinesi ha avuto l’effetto di rallentare il processo di trasformazione dello spazio urbano, specie di quella parte che Secchi definì la “città fabbrica”, connotata dalla mixité degli ambiti della vita privata e lavorativa (Cfr. Secchi et al., 1996); la presenza degli immigrati cinesi ha reso ancora funzionale la sua particolare struttura. Ai tempi del loro arrivo in città, scriveva Becattini nella Storia di Prato a proposito dell’immigrazione cinese: “più di un osservatore, nel descriverne la crescita rapidissima, è stato indotto a rievocare il periodo eroico della nascita e del decollo del distretto pratese: stessa feroce applicazione al lavoro, stessa abilità manuale, stesso radicamento familiare.” (Becattini 2000: 181). Mentre la retorica politica enfatizzava la distanza e la separazione tra i gruppi di residenti – così come delle imprese –, le interazioni tra lavoratori e imprenditori, proprietari locali (italiani) e affittuari immigrati, proseguivano senza interruzione. La stessa opinione pubblica locale reagisce a questo cambiamento con una intensità che ricorda le campagne di reazione agli articoli della stampa internazionale che dipingevano i lati oscuri, o sommersi, dell’impressionante sviluppo economico degli anni ’70. Arrivano ancora una volta i giornalisti internazionali, in numero maggiore di prima6; le descrizioni si concentrano sulle contraddizioni del processo di globalizzazione, sul modo in cui la competizione economica determina le condizioni di lavoro e incide nei contesti locali, modificandone fortemente le dinamiche quotidiane e la composizione sociale, sulle molteplici e talvolta tragiche dimensioni dell’autosfruttamento.

Autosfruttamento: la dimensione sociale ed economica delle aspirazioni

In alcuni articoli usciti verso la fine degli anni ’90 sul quotidiano Il Manifesto7, Becattini affronta il tema dello sviluppo manifatturiero nelle aree svantaggiate del paese, le regioni del Sud dell’Italia, ed introduce il tema dell’autosfruttamento. Se un processo produttivo articolabile in fasi distinte, che culmina nella produzione di beni a domanda differenziata e variabile, si radica in un contesto di economia depressa – scrive Becattini – può intercettare “ritagli di tempo” di lavoratori e famiglie, innescando un processo di apprendimento tecnico e imprenditoriale che mobiliterà elementi della tradizione e risorse locali al fine di rispondere alle domande dei mercati particolari con cui tale contesto è entrato in contatto. Prendiamo il tessile, o l’abbigliamento, scomponiamo la produzione del semilavorato (pezza) o prodotto finito (capo d’abbigliamento) nelle singole fasi produttive che richiedono particolari macchine ed abilità, e ad ognuna di queste fasi facciamo corrispondere un lavoratore, una famiglia o una piccola impresa. Si tratta di un modello produttivo che richiede la presenza di uno o più committenti che conoscano i “mercati particolari” e che siano in grado di coordinare i vari passaggi del processo di produzione.
Nella fase di avvio della relazione tra i committenti (imprenditori) e i lavoratori (autonomi, artigiani, operai), le condizioni contrattuali, esplicite o nascoste nelle pieghe del sommerso, potranno includere una certa dose di autosfruttamento nel lavoro e di deprivazione della vita familiare, ma “a ogni giro” – commenta Becattini - aumenterà in quel luogo e nei gruppi coinvolti, l’accumulazione di competenze pratiche specifiche che, nel tempo, consentiranno di sviluppare una esperienza diretta della logica dei mercati e di facilitare l’accesso alle conoscenze tecniche. Per Becattini questa è la migliore forma di politica industriale, che può mobilitare capacità e mestieri relegati ad ambiti sociali ed economici divenuti nel tempo marginali, promuovere le relazioni tra luoghi (imprese ed istituzioni) non così distanti e portatori di risorse e vantaggi complementari, favorire l’apprendimento di abilità organizzative e mercantili.

“Certo, uno che osservi il fenomeno dall’esterno, a mente fredda diciamo, ci può vedere una mistura allucinante di sfruttamento ed autosfruttamento, ma se, interrogando i protagonisti con spirito aperto, egli cerca di capire di quali aspettative quei sacrifici sono carichi, concluderà, in molti casi, che in quel caos c’è una logica economica non banale …“ (Becattini, 1998: 177)

Il futuro è un fatto culturale sostiene l’antropologo Arjun Appadurai (2014), il futuro viene immaginato, ad esempio grazie alla nostra capacità di avere aspirazioni (desideri, preferenze, scelte, progetti): “le aspirazioni fanno parte di un più ampio insieme di idee morali e metafisiche, derivanti da norme culturali più ampie. Le aspirazioni non sono mai semplicemente individuali” (Appadurai, 2014: 257). Le aspirazioni si traducono in concreti modelli sociali, in idee, regole, forme di famiglia, di lavoro, di proprietà, diritto e consumo. Ma in nessuna società la capacità di aspirare è distribuita uniformemente. I membri più poveri della società hanno meno opportunità di esercitare questa capacità di orientamento, tra l’immaginazione e l’azione nel mondo. E’ in un simile quadro, in modo diverso in ogni luogo e tempo, che l’autosfruttamento (orari di lavoro particolarmente intensi, tempo ridotto per la cura dei figli da parte dei genitori, promiscuità tra gli spazi della vita familiare e quelli del lavoro, scarsa attenzione per la salute e l’igiene, ecc.) diventa moralmente accettabile. Esiste dunque una “logica economica non banale” (Becattini) che giustifica i sacrifici nel tempo presente nel quadro di una prospettiva di gratificazione morale e materiale differita nel tempo futuro.
L’ingresso nei circuiti dei mercati particolari (che si costruiscono sulla base di relazioni ripetute di reciproca conoscenza e fiducia fra i contraenti, imprese conto terzi, intermediari e imprese finali) consente anche a chi si trova in una condizione di subalternità, e dispone di mezzi cognitivi e materiali limitati, di esercitare quella capacità di aspirazione che si configura come capacità di orientamento attraverso l’inventario dei ruoli (percorsi e carriere) disponibili nell’orizzonte culturale locale, di rompere la relazione di dipendenza che riduce le occasioni di immaginare la propria azione economica nel tempo8.
Queste considerazioni trovano una forte assonanza con un noto aforisma di Becattini, contenuto in uno dei suoi principali scritti (pubblicato nel 1989) e che descrive gli aspetti cognitivi che sono connessi alla spiccata mobilità propria del mercato del lavoro di un distretto industriale: “L'etica del lavoro e dell'attività che prevale nel distretto statuisce che ciascuno debba cercare «la scarpa per il suo piede» senza mai darsi per vinto.” (Becattini, 2000a: 63). Comportamenti che sono mossi da significati e valori (fattori intangibili) che Becattini individua nella “coppia insoddisfazione-speranza” 9, e che hanno proprio la capacità di muovere l’azione individuale, e la produttività del lavoro, all’interno di un processo collettivo di costruzione del tempo futuro.

3 Il tema dell’autosfruttamento compare fin nei primi scritti sulla presenza cinese a Prato. Berti e Valzania ne ripercorrono alcuni passaggi e osservano: “Fin da subito, infatti, il lavoratore cinese sembrava riprodurre alcune tra le principali caratteristiche che erano state proprie degli artefici delle fortune del distretto tessile: forte capacità imprenditoriale, organizzazione della propria attività economica su una base familiare e autosfruttamento lavorativo.” (Berti e Valzania, 2013: 46).
4 “Sembrava di sognare, non era una città. Sporca, grigia, sfigurata dai laboratori selvaggi, dissestata dai camion. E poi un dettaglio: 10.000 incidenti sul lavoro nel 1978, di cui 500 con conseguenze definitive. Alcuni operai guadagnano un milione di lire al mese, ma ci perdono troppo spesso chi un polmone, bruciato dai vapori d’acido, chi un dito, incastrato nella cardatrice, chi l’udito – l’80% dei salariati della tessitura che arriva alla pensione è sordo … “Auto-sfruttamento” è un termine, a quanto pare, pratese. Spiega probabilmente perché, stranamente, un numero crescente di giovani si rifiuta di entrare in questo paradiso.” (Maurus, 1980).
5 Sui processi di costruzione della cultura dello straniero, cfr. Bracci, 2015.
6 Nell’introduzione al volume “Chinese migration to Europe. Prato, Italy, and Beyond” (Baldassar et al., 2015) si riporta un lungo elenco dei principali articoli pubblicati tra il 2009 e il 2014 dalla stampa internazionale sul caso della immigrazione cinese a Prato; tra le testate figurano: New York Times, BBC News, Bloomberg Businessweek, Chicago Tribune, Deutsche Welle TV, Die Zeit, Financial Times, Global Times, La Repubblica, La Stampa, Los Angeles Times, NBC News, NPR, Reuters, South China Morning Post, Spiegel Online International, The Economist, The Epoch Times, The Guardian, The Wall Street Journal, Truthout, e de Volkskrant.
7 Cfr. “La leggera industria del mezzogiorno”, Il Manifesto 6 Marzo 1998; “Distretti meridionali”, Il Manifesto 7 Marzo 1998; “Una scommessa chiamata sviluppo economico” Il Manifesto 17 Aprile 1998. Gli articoli sono stati poi pubblicati nel volume: Becattini, 1998, pp. 173-187.
8  “La capacità di aspirare è una capacità culturale, nel senso che trae la propria forza dai sistemi locali di valore, di significato, di comunicazione, di dissenso. La sua forma è riconoscibilmente universale, ma la sua forza è nettamente locale e non può essere separata dal linguaggio, dai valori sociali, dalle storie e dalle norme istituzionali che tendono ad essere altamente specifiche.” (Appadurai, 2014: 398).
9 “Questa tendenza incorporata a ridistribuire continuamente le sue risorse umane è una delle condizioni della produttività e concorrenzialità del distretto. Sono qui in azione potenti fattori «intangibili», come la coppia «insoddisfazione-speranza», che diventano tangibili e monetizzabili «nel movimento », e che contribuiscono a quella parte della «lievitazione» continua della produttività del distretto che non è riconducibile a progresso tecnico in senso proprio.” (Becattini, 2000a: 64).